
Il tragico ricorrere quinquennale di gravi terremoti ha reso ormai evidente che la nostra Penisola è fisicamente costituita da una «cicatrice» geologica, che emerge dal Mediterraneo sulla linea dove la placca africana spinge sotto quella eurasiatica. E a nulla vale rilevare che molti dei nostri aggregati urbani sono quasi millenari, poiché è evidente che il fenomeno, che non s’era mai sopito, attraversa una fase di recrudescenza, che non sappiamo quanto potrà durare.
Ardito Desio, nell’occasione del sisma del Frjuli del ’76 – dal quale ebbe inizio, dopo il Belice del ’67, la consapevolezza che gli eventi si sarebbero ripetuti periodicamente – scrisse che s’era aperta una fase d’instabilità tellurica di durata secolare.
Dopo le Marche, è irrealistico sperare che l’immenso problema della sicurezza degli aggregati urbani, possa essere risolto in tempi brevi con un ciclopico intervento pubblico – come in qualche caso sembra richiedere piuttosto disordinatamente la stampa – ma non per questo dobbiamo rassegnarci a perdere, pezzo dopo pezzo (tralasciando per un istante l’immenso tributo di vittime), l’inestimabile patrimonio materiale e immateriale, che ha dato forma a quella civiltà del costruire che caratterizza l’Italia e che costituisce, senza retorica, un unicum al mondo.
Messe da parte anche le trovate estemporanee di chiedere a qualche architetto pur grande, d’immaginare interventi taumaturgici, rimane necessario comprendere in qual modo il Paese, che da tempo non riesce a dare risposte sistematiche ai suoi problemi più gravi, possa reagire costruttivamente a questa emergenza.
Vorremmo poi aggiungere, anche se può apparire una banalità, che se nei momenti gravi si tende a focalizzare il pericolo più immediato, finendo per perdere la visione generale, bisogna considerare che la sicurezza delle persone, degli edifici e delle città, costituisce un unico medesimo requisito, che c’è nel suo insieme o non c’è. I terremoti certo sono frequenti e spaventosi, ma occorre premunirsi anche contro gli effetti d’inondazioni, frane, uragani, incendi, ai quali è soggetto un patrimonio edificato caratterizzato dalla vetustà diffusa d’infrastrutture, murature e impianti. Una condizione che comprende una parte non trascurabile delle «nuove» costruzioni degli ultimi cinquant’anni, oltre che tutte quelle più vecchie.
Quali risposte si possono allora dare, subito, a problemi di portata così grande, da rischiar di far perdere ogni speranza di padroneggiarli? Premettendo da parte nostra, che ci sentiamo legittimati a dare anche risposte un po’ utopistiche e in ogni caso a non rinunciare a priori al «coraggio della ragione», le risposte sono di due ordini:
- tecnico – culturale
- finanziario – organizzativo
Innanzi tutto l’aspetto culturale e tecnico. Nelle nostre Università vi sono specialisti dei caratteri sismologici del territorio e delle costruzioni, che possiedono le conoscenze sistematiche necessarie, sia dei materiali e delle tecniche tradizionali, sia di quelli innovativi, sufficienti per mettere a punto manuali d’intervento per la messa in sicurezza dei manufatti, nella salvaguardia dei loro caratteri storici e architettonici. E’ sufficiente dar loro i modesti mezzi necessari per concludere e organizzare studi e sperimentazioni, che sono stati ininterrottamente prodotti dai tempi del Frjuli. Un’operazione che è oggi nelle nostre disponibilità e anzi è a portata di mano e che pur diversa, poiché diversa è la concezione odierna della manualistica, avrebbe la portata operativa e culturale di quella compiuta nell’arco di un trentennio, in Francia da Viollet-le-Duc, sulle macerie economico-sociali della Rivoluzione.
Nel frattempo, sotto l’aspetto finanziario e organizzativo, il Governo potrà normare coerentemente gli interventi e i soggetti abilitati a dirigerli e ad eseguirli, nonché finalizzare alla sicurezza dell’esistente, una parte dell’attività di formazione e aggiornamento, alla quale sono già tenuti i professionisti italiani e estenderla anzi ai costruttori e alle maestranze, che da sempre sono state caratteristica vincente e ricercata nel mondo, del lavoro italiano.
Il Governo dovrà inoltre approntare un macro-piano d’intervento diretto sulle infrastrutture pubbliche e un altro programma d’agevolazioni finanziarie e di de-tassazione degli interventi operati dai privati sui loro manufatti, per metterli in sicurezza.
Di fronte a una volontà politica chiara e forte, l’Ue non potrebbe che concedere contributi e flessibilità di bilancio adeguati, che sommati alle risorse interne, avvierebbero un’imponente mole d’interventi pubblici e privati, che nel volgere d’alcuni decenni metterebbero contemporaneamente in progressiva e crescente sicurezza centri storici e periferie, scuole, ospedali e fabbriche, avviando anche quella ripresa economica che non s’è ancora innescata, proprio per il mancato coinvolgimento del settore base delle costruzioni.
Bruno Gabbiani, presidente Ala Assoarchitetti